Intervista a Elisabetta Fanti, psicoterapeuta rogersiana
Andrea Guerrini (psicoterapeuta bioenergetico, Studio F.G. Empoli): Elisabetta, tu hai spesso raccontato che la palla, nella sua forma tonda, ha un potere unico: unisce i bambini in un gioco spontaneo, inclusivo, senza distinzioni. Eppure, crescendo, sembra che quella stessa palla diventi motivo di conflitto.
Elisabetta Fanti: È proprio così. La sfera, nella sua forma perfetta, accoglie tutti: basta un prato, un cortile o una piazza, e i bambini cominciano a giocare insieme. Non importa chi sei, da dove vieni, se sei forte o meno: la palla unisce. Con il tempo però, quella palla diventa il centro di aspettative, di ansie, di risultati. Quello che nasce come inclusione rischia di trasformarsi in esclusione.
Andrea: A cosa ti riferisci concretamente?
Elisabetta: Ai tanti elementi che intervengono: i genitori che vedono nel figlio un campione in miniatura, le società che investono e pretendono ritorni, le partite che diventano teatro di ansie, di rabbie, di frustrazioni. E a volte anche gli allenatori finiscono per guardare più il risultato che i ragazzi. Così il gioco perde la sua leggerezza. La palla che univa, ora divide.
Andrea: In questa prospettiva, qual è il ruolo dello psicologo dello sport?
Elisabetta: Lo psicologo non deve lavorare solo con l’atleta o solo con l’allenatore, ma con tutta la rete. Con i ragazzi, certo, per aiutarli a riconoscere e liberare le emozioni. Ma anche con le famiglie, che vanno accompagnate a distinguere i propri sogni da quelli dei figli. E con gli allenatori, non tanto per trasformarli in psicologi, ma per restituire loro la consapevolezza che ogni ragazzo è diverso e che il vero insegnamento non è la tecnica, ma la relazione. È un lavoro di tessitura, come rimettere insieme i fili di una rete che spesso si sfilaccia.
Andrea: Cosa significa per te portare un approccio rogersiano nello sport?
Elisabetta: Significa rimettere al centro la persona. Carl Rogers parlava di accettazione incondizionata, di presenza autentica, di ascolto profondo. Questo nello sport vuol dire guardare il ragazzo prima come individuo, con la sua storia e le sue fragilità, e solo dopo come atleta. Se impara a sentirsi accolto, ritrova fiducia, e l’ansia si scioglie. Se invece si sente visto solo come “macchina da goal”, perde la capacità di emozionarsi.
Andrea: E come si può lavorare concretamente per restituire allo sport questa dimensione?
Elisabetta: Creando spazi di parola, di confronto, di condivisione. Non solo allenamenti e partite, ma momenti per chiedere: “Come stai? Cosa provi? Cosa ti pesa?”. Gli allenatori, i genitori, i ragazzi stessi hanno bisogno di sentire che non contano solo i numeri sul tabellone, ma la qualità della relazione. È lì che la palla torna a essere ciò che è: un simbolo di gioco, di incontro, di emozione condivisa.
Andrea: Quindi, in fondo, non è la palla ad aver perso la sua magia, ma gli adulti intorno a lei?
Elisabetta: Esatto. La palla rimane tonda, rimane accogliente. Siamo noi adulti a deformarla con le nostre aspettative. Ma se impariamo di nuovo a guardarla con gli occhi dei bambini, allora ritroviamo ciò che conta: la possibilità di emozionarsi insieme.

Empoli, Via Pianezzoli 4
Dott.ssa Elisabetta Fanti, Psicologa Psicoterapeuta, specializzata in psicoterapia umanistica Rogersiana tel 339 534 7455
